Di tanto in tanto si vedevano noti studiosi stranieri, come il Borrichius dell’Università di Copenhagen, o il naturalista Glauber insieme a un gruppo cosiddetto dei “seguaci di Paracelso“. Capitò anche, ma solo rare volte, il medico e alchimista Francesco Borri. Di lui si diceva che fosse ricercato dall’Inquisizione e che anni prima la sua effigie e i suoi scritti fossero stati dati alle fiamme, ma non doveva essere vero perché gli alti prelati lo tenevano in gran conto. Alla morte del marchese, dopo il 1680, e quando il Borri, forse, era già rinchiuso in Castel Sant’ Angelo, si era sparsa la voce che fosse riuscito a fabbricare oro durante uno dei suoi esperimenti all’interno della Villa. Tutti si rivolgevano a lui per farsi curare, e lo stesso cardinal Pignatelli che lo aveva fatto arrestare, quando fu papa col nome di Innocenzo XII, ricorse a lui utilmente contro la gotta.
L’abate Cancellieri annota: «La celebre Cristina Alessandra (il papa Alessandro VII l’aveva accolta a braccia aperte, e lei aveva aggiunto al suo nome quello del pontefice), Regina di Svezia, dopo di aver rinunciato il Regno, ed abbracciata la Religione Cattolica Romana, nel 1655, scelse per suo soggiorno questa città, ove si applicò interamente a proteggere le Scienze, le Lettere, e le Belle Arti, fino al 1689, in cui terminò di vivere. Fra le sue occupazioni volle ancora tentare di rinvenire l’Arte cotanto decantata, e non mai trovata di far l’Oro. Onde fatti costruire nella propria abitazione vari laboratori, invitò i Dilettanti di una tal’Arte, ad andare a fare in essi le loro operazioni, somministrando loro, quanto occorreva per eseguirle. Si presentò un giorno alla Regina un Giovane Oltramontano, dimandandole la permissione di prevalersi di uno de’ suoi laboratori; ed avendoglielo accordato, incominciò egli il lavoro. Dopo qualche Mese, presentossi di nuovo alla Regina, e le disse, che aveva bisogno di andare altrove, per trovare un’ Erba, che serviva al compimento dell’ operazione, e la pregò di dargli un ripostiglio, ad oggetto di custodire in esso, durante la sua assenza, due Vasi di un Liquore, che coll’aggiunta dell’Erba, la quale mancava, sarebbe diventato Oro; ma che lo bramava chiuso a due Chiavi di Mappa diversa, una delle quali rimanesse presso la Regina, l’altra presso di lui. Gli fu tutto accordato e partì. Dopo molto tempo la Regina non vedendolo ritornare, irritata di essere stata derisa, fece aprire a forza il Ripostiglio, e presi i Vasi, trovò congelato il Liquore, e convertito in Oro, e l’altro in Argento, ambedue perfettissimi in tutte le loro rispettive qualità.»
Sull’architrave della Porta ermetica di Piazza Vittorio campeggia la scritta in lettere ebraiche: Rùak Elohìm che significa “Spirito divino” o “Spirito di Dio“. La scritta in ebraico sembrerebbe un atto di devozione verso il primo nome con cui viene chiamato Dio nel Vecchio Testamento, ma non è così: sommando il valore numerico delle otto lettere di Rùak Elohìm si ottiene 300, cioè il valore di una delle lettere madri dell’alfabeto ebraico: la Shìn che rappresenta il fuoco, l’elemento primo di ogni trasformazione alchemica.
Sulla porta di Piazza Vittorio, voluta dal marchese Massimiliano Palombara e dalla regina Cristina di Svezia, sono ancora ben visibili i simboli che caratterizzano le varie fasi dell’opera alchemica.
Sul frontone e sull’architrave si trovano le Chiavi che introducono alla Grande Opera, come la chiamavano i figli dell’ Arte: alchimisti ed ermetici. Sugli stipiti, utilizzando la simbologia dei pianeti, ciascuna fase è descritta con poche righe in latino di facile decifrazione per chi conosca, oltre al latino, i testi di alchimia.
Dalla prima che si compie sotto Saturno: “Sarai detto sapiente quando in casa tua neri corvi partoriranno bianche colombe“, all’ultima che sancisce la fine dell’ opera e l’avvenuta e felice trasformazione. Dall’opera al nero sino all’opera al rosso, passando per l’opera al bianco. Dal piombo all’oro attraverso l’argento per usare il linguaggio dei metalli, caro agli alchimisti.
La regina Cristina sapeva bene che il laboratorio di Villa Palombara difficilmente le avrebbe fornito l’oro di cui aveva bisogno per il suo mecenatismo. Lo sapeva talmente che, a quello scopo, preferiva ricorrere alle casse dello Stato Vaticano. Sperò certo, come i chimici del tempo, di trarre vantaggi per l’ umanità da quelle esperienze di laboratorio. Il suo sogno, però, era un altro: quello di una rigenerazione politica e morale. Certo sua o da lei ispirata è la scritta che si legge sul gradino della porta: “E’ opera occulta del vero sapiente aprire la terra perché si generi il bene del popolo. “
Diversamente la pensava, un secolo dopo, l’abate Cancellieri che nel trascrivere le epigrafi della porta si augurava che «i Dilettanti Giuocatori, ed Alchimisti, i quali, ad onta della contraria esperienza, non resteranno mai disingannati, e seguiteranno sempre a soffiare sui loro Fornelli, ed a vaneggiare ne’ loro Sogni, avranno finalmente il commodo di meditare a loro bell’ agio, senza aver più bisogno di salire sulla vetta dell’Esquilino, per andare ad osservarle, e a trascriverle. »
Lo stesso abate riporta anche il contenuto delle epigrafi disseminate all’interno della Villa e andate perdute. La più breve avverte che la Pietra dei Saggi non è data ai lupi.
La più lunga è una composizione poetica di reminiscenze classiche. Descrive la Villa com’era un tempo per l’ ignoto e pacifico visitatore che desiderasse entrarvi. La descrizione ricorda la felice età dell’oro. Termina con un augurio:
«Ti faccio buon augurio, così sia per sempre. Ma tu, appena lo potrai, scrivi qui, su questa porta, generata dal fango – perchè le pietre nascono dalla putrefazione – che il tempo sorride, ma in breve distrugge ogni cosa…»
Articolo di Sergio Magaldi
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